Sullo sciopero della fame dei prigionieri palestinesi

Posted: Giugno 22nd, 2017 | Author: | Filed under: General, Prigioni e dintorni | Commenti disabilitati su Sullo sciopero della fame dei prigionieri palestinesi

I detenuti palestinesi nelle carceri israeliane hanno sospeso il lungo sciopero della fame dopo un accordo con le autorità. Ma il loro problema principale non è stato affrontato.

di Meghna Sridhar e Tripp Zanetis
01.06.2017, Jacobin (USA)

Traduzione di Internazionale

I prigionieri palestinesi nelle carceri israeliane che hanno osservato uno sciopero della fame per quaranta giorni chiedevano miglioramenti delle loro condizioni di vita, come un accesso più facile alle visite e alle telefonate dei familiari. Ma alla base di tutto c’è un problema più insidioso: il sistema dei tribunali militari, che dal 1967 ha portato all’incarcerazione di un uomo palestinese su tre. I palestinesi detenuti in Israele sono condannati da un sistema giudiziario gestito dall’esercito, che non prevede le stesse tutele garantite nei tribunali civili. Queste corti si occupano solo di reati contro cittadini o proprietà israeliani, e non perseguono i reati commessi dai coloni in Cisgiordania né quelli in cui le vittime sono palestinesi. Come ha osservato il leader dell’ultima protesta dei detenuti, Marwan Barghouti, i tribunali militari sono “complici dei crimini dell’occupazione”.
Il portavoce del ministro degli esteri israeliano Emmanuel Nahshon ha dichiarato che i detenuti palestinesi non sono prigionieri politici, ma “terroristi e assassini condannati”. Tuttavia la realtà e le statistiche dicono altro. Ogni anno i tribunali militari processano tra i cinquecento e i settecento minorenni. Dal 2010 al 2015 il 79 per cento di loro è stato perseguito per aver lanciato pietre, che le regole dell’esercito israeliano considerano un reato “contro l’ordine pubblico”. A commetterlo sono spesso ragazzini che lanciano sassi verso obiettivi troppo distanti per essere colpiti. I tribunali militari perseguono anche altri reati di natura non violenta, come l’istigazione, un termine che può comprendere il fatto di aver pubblicato su Facebook un post contro l’occupazione. Altri palestinesi sono chiamati a rispondere dell’accusa d’iniltrazione, reato contestato a chi entra illegalmente in Israele per lavorare.
Sempre condannati
C’è una buona ragione se la pratica di processare civili, e soprattutto minori, in un tribunale militare per un periodo di tempo così lungo non ha precedenti in una democrazia. Il diritto internazionale consente procedimenti contro i civili da parte dei tribunali militari solo nel caso eccezionale di un’occupazione durante una guerra. E le leggi internazionali sull’occupazione non ne hanno mai contemplata una che dura cinquant’anni.
Il 99,74 per cento dei casi esaminati da un tribunale militare finisce con una condanna: una volta incriminato, un palestinese ha poche possibilità di difendersi con successo. Le prove, soprattutto nel caso di minori, sono spesso frutto di confessioni estorte con la forza, ma le istanze per chiedere l’esclusione di queste prove illegali non sono quasi mai accolte. Gli atti dei processi sono in ebraico, una lingua sconosciuta a quasi tutti gli accusati e alla maggior parte dei loro avvocati. Le traduzioni sono spesso inaccurate. Molti casi si risolvono con un’ammissione di colpevolezza perché, secondo alcuni avvocati, sia gli accusati sia i legali di solito sono puniti se cercano di arrivare al processo.
I prigionieri palestinesi subiscono condizioni di detenzione durissime, in strutture a cui i loro familiari hanno un accesso molto limitato. L’incarcerazione di massa è un pilastro del controllo che Israele esercita sulla Cisgiordania. Solo la fine del controllo militare sulla popolazione civile renderà giustizia ai prigionieri palestinesi e a milioni di persone che ogni giorno subiscono umiliazioni fuori dal carcere.
Meghna Sridhar e Tripp Zanetis hanno visitato i tribunali militari della Cisgiordania con una delegazione della Law school dell’università di Stanford.


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